Pubblicare sulla rivista scientifica "Nature" per un ricercatore del settore bio-scientifico significa aver qualcosa di serio da raccontare. E, soprattutto, significa mettersi in gioco e condividere il lavoro con una comunità di esperti che - prima di pubblicare o rifiutare la ricerca proposta - valuta, critica e segnala inesattezze o correzioni da apportare: è quella che viene chiamata "peer-review", una garanzia che quello che viene pubblicato contribuisce alla crescita della cultura scientifica e pone le basi per ulteriori ricerche ed approfondimento.
Tanto per dirne una, un certo James Watson e un tale Francis Crick pubblicarono la scoperta che rivoluzionò la biologia molecolare proprio su Nature oramai quasi 70 anni fa (correva il 25 aprile del 1953 e l'articolo era intitolato " “A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid”) . Bene: è del 17 marzo 2020 la pubblicazione su Nature di un articolo a firma di Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut, W. Ian Lipkin, Edward C. Holmes e Robert F. Garry Uno studio smentisce le ipotesi complottiste sull’origine di SARS-CoV2 In qualche modo tutti l’abbiamo sentito dire. Il virus responsabile della pandemia cui stiamo assistendo sarebbe stato generato in laboratorio e poi rilasciato all’esterno. Volontariamente, per errore, come parte di una guerra geopolitica a bassa intensità o per puro sadismo. Le ipotesi di complotto che circolano sull’origine di questo virus sono molteplici. Per quanto folkloristiche o assurde possano sembrare queste ipotesi, bisogna cogliere cosa c’è al di là di esse. Sicuramente una grande sfiducia nelle istituzioni scientifiche a cui si aggiungono profonde questioni di carattere etico, ampiamente dibattute anche all’interno della comunità scientifica stessa. Lo sviluppo delle tecnologie genetichee la possibilità di modificare quello che viene ritenuto il “codice base” della vita, sono elementi che hanno provocato un forte impatto sulla società. Il timore che simili tecnologie possano sfuggirci di mano e che un loro utilizzo sbagliato possa comportare catastrofi per l’umanità è piuttosto diffuso nell’immaginario sociale. E non va banalizzato. È invece utile tentare quanto più possibile di spiegare i fenomeni ed aiutare a comprenderli, più che liquidare le questioni sbrigativamente chiedendo semplicemente di “credere agli esperti”. Per questo oggi parliamo di una recentissima ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature” da un gruppo di ricercatori statunitensi, inglesi ed australiani. La ricerca, dal titolo “The proximal origin of SARS-CoV2” si pone esattamente lo scopo di spiegare perché sia da escludere che questo virus sia frutto di manipolazioni di laboratorio. Nello studio, i ricercatori si sono concentrati sulla struttura della proteina “spike” che il virus utilizza per entrare nelle cellule umane. Hanno ricostruito la storia evolutiva che ha portato questa proteina a riconoscere le nostre cellule, tentando di indicare le ragioni per cui la storia di questa proteina sia assolutamente “naturale”, più che “artificiale”. A supporto di questa ipotesi, i ricercatori portano diversi dati. Anzitutto, la struttura di spike di SARS-CoV2 risulta molto diversa da quelle predette in analisi strutturali precedenti. Quindi, è più probabile che sia il frutto di una evoluzione naturale piuttosto che di una manipolazione artificiale. Basti pensare che ben 5 su 6 degli amminoacidi (i componenti elementari delle proteine) presenti su spike differiscano del tutto da quelli di SARS-CoV, il virus responsabile delle epidemie del 2002-2003 e che ragionevolmente verrebbe usato come “base” su cui costruire un virus artificiale simile. Inoltre, il legame di spike alle cellule umane appare addirittura meno efficiente di quello del ceppo di SARS-CoV, e questo ne potrebbe in parte spiegare il minor tasso di mortalità. Insomma, sembra molto strano che un ricercatore nel tentativo di creare un virus per danneggiare gli esseri umani, non si accorga di aver addirittura reso meno efficace il legame della proteina-chiave. Inoltre un particolare sito presente sulla proteina spike di SARS-CoV2 appare del tutto inedito, se confrontato ad altri beta coronavirus di tipo 2 come SARS-CoV. E risulta piuttosto difficile che questo particolare sito sia acquisibile in laboratorio, perché la sua evoluzione richiede nella maggior parte dei casi noti la presenza di un organismo complesso e dotato d’un sistema immunitario. Cosa di cui le colture cellulari di laboratorio sono prive. Insomma, una serie d’indizi portano a concludere che questo virus non derivi da nessuno dei beta-coronavirus attualmente noti. Manca quel che tecnicamente si definisce “backbone”, un “virus progenitore” noto, da modificare geneticamente per implementarne la pericolosità. Quel che sembra più ragionevole è ritenere che questo virus provenga dagli animali. Nello specifico, i pipistrelli hanno sequenze genetiche molto simili a questo virus. E i virus dei pangolini sono dotati di una proteina spike piuttosto simile a quella di SARS-CoV2. Indizi che fanno ritenere ai ricercatori che il nostro virus si sarebbe generato per selezione naturale a partire da un virus molto simile ma a noi attualmente sconosciuto, da ricercare appunto negli animali. Insomma, senza andare a ricercare spiegazioni contorte e arzigogolate, tendenzialmente la risposta più parsimoniosa è quella più corretta. Pare proprio che SARS-CoV2 si sia evoluto a partire da un altro coronavirus presente negli animali per poi passare all’uomo. Come già avvenuto del resto per 6 coronavirus già noti per aver infettato l’uomo e per circa 2/3 di tutti i patogeni umani attualmente noti. Autore: Silvio Paone, dottore di ricerca in Malattie Infettive, Microbiologia e Sanità Pubblica ed editor della pagina In figura: Confronto tra le sequenze di amminoacidi nel sito di legame alle cellule umane della proteina spike per diversi coronavirus presenti in diverse specie. Evidenziati in azzurro gli amminoacidi in comune. Fonte: Andersen et al; The proximal origin of SARS-CoV2. Nature Medicine, 2020
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